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martedì 26 agosto 2014

Riforma Franceschini, breve storia dei beni culturali

La riforma del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo promossa dal ministro Franceschini è destinata a incidere profondamente sul destino futuro del comparto "Belle Arti" nel nostro Paese. Mentre la riforma viene varata si può utilmente ripensare alla storia di tale comparto. A questo argomento cruciale per lo sviluppo del lavoro nel nostro Paese, vorrei dedicare alcuni interventi, quasi a titolo di breve storia dei beni culturali.

Fino al 1974 non esisteva un Ministero per i beni culturali in Italia, che comprendesse tutte insieme le competenze delle cosiddette "Belle Arti", degli Archivi di Stato, delle Biblioteche pubbliche statali, dello Spettacolo, del Cinema, della Musica, del Turismo, del Paesaggio. Queste competenze sono state aggregate lentamente nel corso del tempo nel nome di una omogeneità concettuale, denominabile "beni culturali" materiali e immateriali, che inizialmente stentò a essere riconosciuta.

Prima della istituzione nel 1974 del Ministero per i beni culturali e ambientali (che poi muterà progressivamente nome inglobando le "attività culturali" e il "turismo", e mutando l'iniziale dicitura "per i beni ecc." in "dei beni ecc.") le competenze delle Belle Arti, cioè la tutela e fruizione delle opere d'arte, dei musei, delle architetture storiche, dell'archeologia, con qualche estensione alle arti e tradizioni popolari, erano assegnate a una Direzione Generale del Ministero della Pubblica Istruzione, chiamata Direzione Generale Antichità e Belle Arti. Da questa dipendevano soprattutto le Soprintendenze distribuite sul tutto il territorio nazionale divise in "alle gallerie e opere d' arte" (cioè il patrimonio artistico nei musei, nelle chiese, nei palazzi) "ai monumenti", (cioè la tutela degli edifici storici, la conservazione del patrimonio urbano e ambientale) e "alle antichità" (le aree archeologiche e i musei archeologici). Per il resto gli Archivi erano sotto il Ministero dell' Interno, le Biblioteche erano pure di spettanza della Pubblica Istruzione, il mondo dello spettacolo nelle sue molte articolazioni era regolamentato da norme specifiche e per lo più vigilato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri curatrice anche di alcuni aspetti del comparto editoria, e il Turismo era gestito dall'Ente Nazionale Italiano per il Turismo, poi nel corso del tempo più volte modificato nelle sue strutture interne e di riferimento politico.

Nella discussione teoretica tra esperti le Belle Arti erano considerate patrimonio pubblico della Nazione sia che la proprietà delle "cose d' arte" (così erano definite in sede giuridica) spettasse al Ministero dell' Interno, sia che spettasse a Enti ecclesiastici o Enti locali, escludendo soltanto le proprietà extraterritorali vaticane perché non appartenenti allo Stato italiano. Il patrimonio rinvenuto nel sottosuolo o sotto il mare era demaniale per principio (norma rimasta vigente), e quello privato poteva essere sottoposto dal Ministero al vincolo definito "di importante interesse" che, senza lederne il diritto di proprietà, consentiva allo Stato di esercitare anche in quel settore la tutela e la conservazione vietando nel contempo l'espatrio di beni mobili vincolati, regola anche questa sempre vigente pur nel nuovo assetto europeo.

Tale situazione riflette bene la cultura italiana degli anni cinquanta e sessanta, epoca di grandi fervori e di ancora intatta creatività nel nostro Paese, per comprendere bene i motivi della necessità che il legislatore avvertì, nel passaggio cruciale agli anni settanta del Novecento, della creazione di un Ministero apposito di cui l' Italia doveva dotarsi per onorare al meglio il dettato costituzionale e la sua stessa essenza di terra di cultura e conservazione delle cose d'arte, bene prezioso per la collettività, da cui scaturì la formulazione del concetto stesso di "bene culturale" sconosciuto fino al primo dopoguerra ma poi lentamente elaborato in un dibattito storico, filosofico e giuridico degno di memoria e rispetto profondo.