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sabato 31 marzo 2012

WEEK END: Doppio appuntamento con l'arte e con la storia


Domenica 25 marzo riprenderanno le tradizionali visite guidate al borgo di Lomello; contemporaneamente si svolgerà il tour "Alle origini del Romanico", lungo un percorso di 15 km che si snoda tra Lomello, Pieve di Velezzo e Breme.

Le visite, tenute dalle guide della Pro Loco, inizieranno alle ore 15, davanti alla basilica di Santa Maria Maggiore, a Lomello.
Appuntamento importante al quale non si può mancare!

giovedì 29 marzo 2012

L'Umbria celebra Luca Signorelli, artista 'de ingegno'


Il monumentale palazzo Vitelli alla Cannoniera, a Citta' di Castello, e' il terzo sito della rassegna, per una precisa scelta dei curatori di non spostare dalla Pinacoteca Comunale alcun dipinto del maestro cortonese; anzi di incrementare il gia' importante nucleo esistente con altre opere provenienti da collezioni italiane e straniere. Al tempo della signoria dei Vitelli, Citta' di Castello offri' al pittore molte, importanti occasioni di lavoro. Oltre ai ritratti di alcuni esponenti della famiglia Vitelli, l'artista esegui' infatti svariati dipinti per le principali chiese cittadine, a cui guardo' con attenzione il giovane Raffaello. Restano a Citta' di Castello il Martirio di San Sebastiano, l'appena restaurato gonfalone di San Giovanni Battista e la gigantesca pala di Santa Cecilia, opera tarda (1517 circa), ma di estremo interesse per comprendere il funzionamento della bottega signorelliana.
Dopo il 1510, Signorelli concesse ampio spazio ai suoi collaboratori, pur non mancando di fornire disegni, spunti e idee compositive. Accanto alle opere della Pinacoteca, vengono presentati una decina di dipinti. Fra questi il bel tondo della Galleria Comunale di Prato, alla cui esecuzione potrebbe aver concorso Francesco Signorelli, nipote dell'artista e suo principale collaboratore, i Santi Rocco e Sebastiano dell'Accademia Carrara di Bergamo, una Presentazione al Tempio di collezione privata e una serie, interessantissima, di predelle tuttora sottoposte al vaglio della critica per la loro storia antica scarsamente documentata (la predella di Bucarest, della pala di Castel Sant'Angelo, della pala di Foiano della Chiana, dell'Assunzione di Cortona).
Come per le altre grandi mostre dell'Umbria, anche per Signorelli sono promossi itinerari di visita nei siti che conservano opere dell'artista, in particolare nella Valtiberina: i poco noti ma fascinosi affreschi con 'Storie della Passione', che il pittore cortonese realizzo', verso il 1510, nell'Oratorio di San Crescentino a Morra, la chiesa-museo di Santa Croce di Umbertide con la tavola raffigurante la Deposizione dalla Croce del 1516 e, oltrepassando gli attuali confini amministrativi, lo stendardo di Sant'Antonio, conservato nella chiesa omonima di Sansepolcro. Senza dimenticare che Cortona, la sua citta' natale, conserva alcuni grandi capolavori come la Comunione degli Apostoli e il Compianto su Cristo morto nel Museo Diocesano.

XIV Settimana della Cultura

Logo XIV Settimana Cultura
 
Anche quest’anno, il MiBAC per promuovere e valorizzare il Patrimonio culturale italiano apre gratuitamente le porte di musei, ville, monumenti, aree archeologiche, archivi e biblioteche statali, per nove giorni, dal 14 al 22 aprile su tutto il territorio nazionale.
La settimana della Cultura, divenuta, ormai, una grande festa collettiva offre un ricco calendario di appuntamenti: mostre, convegni, aperture straordinarie, laboratori didattici, visite guidate e concerti, che renderanno ancora più speciale l’esperienza di tutti i visitatori.
Lo scopo fondamentale di questa iniziativa è quello di trasmettere l’amore per l’arte e favorire nuove esperienze culturali attraverso la conoscenza dell’immenso patrimonio italiano, grazie anche al coinvolgimento di altre Istituzioni pubbliche e private, per una partecipazione estesa e capillare su tutto il territorio.

La cultura è di tutti: partecipa anche tu” è il tema conduttore che viene ripetuto ormai da qualche anno per sottolineare l’universalità del nostro patrimonio, unico e inimitabile, che il MiBAC mette a disposizione di ciascun cittadino, proprio per favorire una maggiore conoscenza e per abituare i cittadini a frequentare assiduamente i luoghi d’arte, passaggio necessario per un’autentica crescita civile, sociale e culturale della nazione.

mercoledì 28 marzo 2012

La "Fonte della Fate" a Poggibonsi

Fonte delle Fate
Sulla strada che porta a San Lucchese ed a circa 200 metri da quest'ultima, la Fonte di Vallepiatta, detta delle Fate, è l'unico grandioso reperto architettonico della sovrastante e distrutta Poggio Bonizio. Riscoperta, in parte, nel 1803, dopo che era stata interrata nel 1484con la costruzione della Fortezza del Sangallo e successivamente ricondotta allo stato originale, questa grande fontana pubblica (la più grande per dimensione di tutto il territorio senese) è stata completamente restaurata, ripulita e ricondotta all'antico splendore grazie ad un recente intervento della Soprintendenza ai monumenti. E' attribuita al disegno di un "magister lapidum" del tutto sconosciuto, Arte nella FonteBalugano da Crema, che comunque vi ha riversato la sua grande sapienza costruttiva. Essa si presenta con una sorta di portico costruito su sei arcate doppie a sesto acuto, all'interno del quale si trovano le vasche per la raccolta delle acque. La fonte era (ed in parte lo è ancora) alimentata dal vasto impluvio sovrastante, attraverso una lunga serie di gallerie e cunicoli.
La sua realizzazione è riferibile ai primi anni del XIII secolo.

martedì 27 marzo 2012

E' malato l'«Autoritratto» di Leonardo...

La termografia, riflettologia, microscopio elettronico e altre tecnologie consentono oggi un'analisi approfondita dello stato di salute di un bene culturale. Tanto che, ogni volta che si sottopone un'opera a indagine, si evidenziano carenze nel suo stato di conservazione.
Fa bene dunque il ministero a procedere con cautela di fronte agli esiti di queste indagini come pare intenzionato a fare anche per il famoso «Autoritratto» di Leonardo da Vinci, che risulterebbe ammalato.

L’«Autoritratto » di Leonardo Da Vinci, conservato alla Biblioteca Reale di Torino e sottoposto a indagine dal ministero
L’«Autoritratto » di Leonardo Da Vinci,
conservato alla Biblioteca Reale di Torino
 e sottoposto a indagine dal ministero
L'«Autoritratto», che per decenni non era uscito dal caveau della Biblioteca Reale di Torino, è stato esposto negli scorsi mesi a Venaria Reale e poi è partito alla volta di Roma per un check-up condotto dall'Istituto centrale di conservazione per il patrimonio archivistico e librario. E i risultati di quest'indagine, presentati ieri mattina dagli esperti del ministero, hanno evidenziato importanti patologie alla carta sulla quale il profilo del genio di Vinci è ritratto a sanguigna. Il disegno presenta diffuse macchie di «foxing», ovvero macchie brune di ossidazione dovute alla ruggine e all'invecchiamento. Queste ossidazioni biologiche, dalla caratteristica pigmentazione bruno-rossastra o giallastra, hanno provocato la corrosione delle fibre di cellulosa della carta, ovvero un indebolimento del supporto. Che, per altro, non risulta di grande qualità: giallastra e con fili di lana. «È stato fatto ogni possibile tipo di indagine, con la fluorescenza, raggi X, con il microscopio a scansione elettronica - afferma Maria Cristina Misiti, direttore dell'Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario -. I risultati non sono incoraggianti: il disegno è gravemente degradato. Il processo di degrado è antico, risalente ai primi del '900. Da fonti di archivio si sa che in quegli anni, '29-'30, è stato affisso al muro e il male estremo che ha subito è la luce. Questo ha provocato lesioni chimiche che sembrano come delle bruciature». Forse proprio per fornire all'opera un rinforzo, la superficie della carta era stata spennellata su entrambi i lati con un composto di colla d'amido.

Che fare? Antonia Pasqua Recchia, segretario generale del ministero, tratteggia una road-map alla ricerca della condivisione collettiva: «L'autoritratto è un bene universale, dunque è corretto sottoporre il quesito a molti esperti. Fino a maggio valuteremo i dati emersi. In maggio presenteremo tutti i dati a un parterre di esperti e decideremo. Ci sono quattro strade possibili: non fare nulla; rimuovere l'incrostazione, ovvero pulirlo; eliminare le macchie che si sono evidenziate o, infine, intervenire radicalmente anche sul pigmento». E aggiunge una valutazione tombale per tutti i curatori di mostre: «Di certo il disegno non potrà mai andare in giro per il mondo, mai, perché è molto malato».
Il microscopio ha anche permesso di osservare meglio la carta sulla quale è ritratta l'effige del maestro in veneranda età, compatibile con una datazione compresa tra la fine del '400 e l'inizio del '500, ed è stata fabbricata con fibre di canapa e lino e frammenti di lana colorata. Questo fa pensare che non si tratti di un prodotto di qualità, cosa tutt'altro che anomala per Leonardo, che era solito disegnare su carte di vario tipo.
Il disegno resterà a Roma sino al workshop di maggio. Poi il conservatore della Biblioteca Reale di Torino e i dirigenti del ministero dovranno decidere il trattamento.

martedì 20 marzo 2012

Luca di Tommè dopo la "morte nera": una nuova Crocifissione

Particolare della Crocifissione che verrà presentata
 al pubblico per la prima volta nel corso della conferenza
Nell’ambito degli “Incontri del giovedì”, la Soprintendenza BSAE di Siena e Grosseto propone una conferenza dal titolo: “Luca di Tommè dopo la “morte nera”: una nuova Crocifissione e un polittico della Pinacoteca”. Il tema sarà esposto da Gabriele Fattorini, direttore del Museo Diocesano di Pienza, giovedì 22 marzo alle ore 20:30 presso la Pinacoteca Nazionale di Siena.

Protagonista della pittura senese di secondo Trecento, Luca di Tommè visse quella stagione che seguì la tragica peste del 1348: la "Black Death" cui Millard Meiss dedicò mezzo secolo fa un libro di grande successo, nel quale cercò di indagare gli effetti avuti dal tragico evento sulla pittura fiorentina e senese.

Una tavoletta con una Crocifissione, presentata al pubblico per la prima volta, e una nuova lettura di uno dei suoi polittici più noti della Pinacoteca Nazionale di Siena, offrono l'occasione per discutere di questi temi, focalizzando l'attenzione su uno dei maggiori interpreti della cultura figurativa di quel periodo.

Il grande polittico di Luca di Tommè della Pinacoteca Nazionale attualmente sottoposto
ad un interventodi manutenzione conservativa che prevede la revisione della superificie pittorica

domenica 18 marzo 2012

Ritorno al passato

Pubblico delle vecchie foto di Lomello passatemi dall'amico Giorgio che le ha definite "reliquie".
Sono certo di far cosa gradita a tanti lomellesi e lomellini...









venerdì 16 marzo 2012

Battaglia di Anghiari, la lacca rivelatrice

Anche il pigmento rosso raccolto durante le ricerche della Battaglia di Anghiari presenta fortissime analogie con quello di un altro dipinto leonardesco, l'Adorazione dei Magi
di Marco Ferri
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I restauratori dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze al lavoro sull’Adorazione dei Magi di Leonardo. Fotografia di Alberto Novelli

Si è appena spenta l'eco dei risultati della prima indagine endoscopica alla ricerca de La battaglia di Anghiari, ed ecco un'altra rivelazione: se "il nero di Lionardo era più nero del nero", come lo definì Giorgio Vasari, e quello trovato oltre l'intercapedine della parete est del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio ha la stessa composizione chimica di quello della Monna Lisa e del San Giovanni Battista del Louvre, anche la lacca rossa - estratta con la sonda endoscopica dallo stesso muro - ha delle "fortissime analogie con quella presente su un'altra opera di Leonardo: l'Adorazione dei Magi".

Ad affermarlo è lo stesso responsabile della ricerca in atto a Firenze, l'ingegner Maurizio Seracini, che negli ultimi 20 anni ha ampiamente studiato la grande tavola di Leonardo. E non è la sola opera che presenta questa caratteristica di affinità: "anche altre opere del genio di Vinci”, ha aggiunto Seracini "databili sempre alla prima metà degli Ottanta del XV secolo, dimostrano l'utilizzo di una lacca dello stesso tipo di quella estratta dalla parete est del Salone dei Cinquecento".

La grande tavola incompiuta,
attualmente nel laboratorio restauri dell'Opificio delle Pietre Dure, alla Fortezza da Basso, da alcuni mesi è al centro di una nuova (la terza) campagna di analisi diagnostiche per stabilire lo stato del manto pittorico e delle vernici. Seracini la studiò a fondo agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo e nel 2002. Proprio la presenza del capolavoro fuori dagli Uffizi, dove normalmente è custodita, potrebbe aprire la strada a ulteriori analisi "mirate", per dimostrare l'identica composizione della lacca della tavola rispetto sia a quella estratta dal muro, sia a quella usata per altre pitture da Leonardo.

Le prove

In ogni caso questa della lacca è un'evidenza che spinge, secondo Seracini, "a non parlare più di indizi ma di prove. E chi non le capisce è perché non le vuol capire". Le "prove" cui fa riferimento l'ingegnere fiorentino sono di tipo sia documentario, sia fisico.

Per motivi di brevità, durante l'affollata conferenza stampa di lunedì scorso in Palazzo Vecchio, Seracini non ha potuto illustrare tutti i documenti che indicano la presenza di Leonardo nel Salone dei Cinquecento.

Come la tamponatura, all'inizio del 1505, delle due finestre che si trovavano proprio sulla parete destinata a ospitare La battaglia di Anghiari di Leonardo e La battaglia di Cascina di Michelangelo, per lasciare entrare la luce solo da ponente, attraverso le restanti altre 4 finestre contrapposte alla parete est, sì da permettere ai due geni di lavorare in condizioni di luce ottimali; come il documento in cui Francesco Albertini nel 1510 fa riferimento a "li cavalli di Lionardo e li disegni di Michelangiolo"; come la ricevuta, del 1513, di pagamento di ben 43 braccia di assi (oltre 25 metri) per proteggere "le figure dipinte di mano di Lionardo"; come il Codice Magliabechiano del 1540 in cui si descrive la pittura "che ancora si vede et in vernice". E infine, come l'apertura di una porta sulla parete ovest del Salone (in corrispondenza dell'attuale entrata nello Studiolo di Francesco I) nell'agosto 1508 - cioè 2 anni dopo la realizzazione della pittura murale - dalla quale un giorno, nel 1549, sarebbe entrato Anton Francesco Doni che avrebbe poi descritto ciò che i suoi occhi vedevano: "un gruppo di cavalli e d'uomini (un pezzo della battaglia di Lionardo da Vinci) che vi parrà cosa miracolosa".

Il futuro della ricerca

Di fronte a simili rilevanze documentarie e alle prove scientifiche fin qui ottenute, Seracini è certo che la direzione intrapresa è quella giusta e che la ricerca "può solo proseguire". Il docente dell'Università della California è sicuro che la porzione dell'affresco di Vasari, La battaglia di Marciano della Chiana, oltre la quale è maggiore la probabilità di trovare tracce materiali della pittura murale di Leonardo, è il quarto inferiore sinistro. Ed è lì che vanno concentrati gli sforzi. La mappatura delle aree dell'affresco vasariano interessate ai restauri della fine dell'Ottocento e inizio Novecento è già stata effettuata dai tecnici dell'Opificio. Per cui Seracini adesso attende precise indicazioni per poter continuare la sua "caccia". Stavolta però con molte più frecce nella sua faretra.

La radice di ogni arte...


"Forse, pensò, la radice d'ogni arte, e fors'anche d'ogni spirito, è la paura della morte.
Noi la temiamo, abbiamo orrore della caducità, vediamo con tristezza i fiori appassire e le foglie cadere e sentiamo nel nostro cuore la certezza che anche noi siamo caduchi e presto avvizziremo. Se dunque come artisti creiamo figure o come pensatori cerchiamo leggi e formuliamo pensieri, lo facciamo per salvare qualche cosa della grande danza macabra, per stabilire qualche cosa che abbia una durata più lunga di noi stessi."

Herman Hesse, Narciso e Boccadoro

giovedì 15 marzo 2012

Lomello: figuraccia dell’Unesco, scorda persino Teodolinda!


Ma che cos’è questo Lomello?
Evidentemente all’Unesco nessuno si era occupato di libri di storia, perché nella lista dei siti longobardi redatta proprio dell’Unesco non compare nessun bene presente nel luogo delle nozze della regina Teodolinda.
Uno “scandalo storico” che non va giù all’assessore alla cultura Massimo Granata: “E’ stata una grossa dimenticanza, perché oltre noi hanno dimenticato anche Pavia e ciò è eclatante visto che è stata la capitale dei Longobardi - accusa Granata - noi ora siamo uniti nella protesta con Pavia”.
Dunque un evidente tralasciare che sicuramente ha creato un grande disappunto in chi mastica l’arte longobarda e vuole fare in modo che essa sia riconosciuta e valorizzata, come Massimo Granata: ”Noi abbiamo il battistero, uno dei pochi edifici longobardi rimasti, visto che il popolo barbaro non era solito costruire - informa l’assessore - io spero che ci sia una seconda lista dove siano inclusi anche Lomello e Pavia!”



Imprecisioni dell'assesore a parte, fate un "giro" su internet e guardate cosa è Lomello.
Nel dubbio sono a disposizione!
Alla faccia dell'UNESCO...

Bagno Vignoni


Il nome di questo antico borgo deriva da Vignoni, castello gia noto nel XI secolo, le cui tracce dominano l'altura sopra il borgo, e dalle acque termali usate fin dall'epoca romana, come testimoniano numerosi reperti archeologici che si trovano nella collezione Chigi di Siena, Museo Archeologico Nazionale.
Nel XII secolo il Bagno era soggetto alla famiglia Tignosi, signori di Tintinnano, ora Rocca d'Orcia, sotto la cui signoria rimase fino alla fine del 200; all'inizio del 300, Bagno Vignoni ed i borghi e castelli circostanti, passarono in possesso della famiglia senese dei Salimbeni, a cui rimase fino al 1417, quando il secondo marito di Antonia Salimbeni, Attendolo Sforza, lo vendette al comune di Siena.
Nonostante i numerosi episodi di guerra, devastazioni ed incendi che coinvolsero la Val d'Orcia nel corso del medioevo, l'assetto del borgo di Bagno Vignoni da allora rimasto sostanzialmente immutato fino ai nostri giorni.




Il villaggio si sviluppo in una spianata, a metà fra il colle di Vignoni e la ripida gola formata dal fiume Orcia, intorno ad una grande vasca rettangolare, entro cui sgorgano le acque: questo elemento che è il futuro generatore dell'impianto del borgo e tuttora il centro del villaggio, costituisce un evidente richiamo ad alcuni aspetti propri degli impianti termali romani.
Intorno alla vasca si disposero le abitazioni, le locande ed in seguito la chiesa di San Giovanni Battista, dove attualmente è possibile vedere il frammento restaurato dell'affresco raffigurante Cristo risorto attribuito a Ventura Salimbeni, originariamente situato nella cappella di santa Caterina. Dalla vasca, oltrepassato un ponte porticato, le acque raggiungevano le terme e poi andavano ad alimentare una serie di mulini disposti sul ripido ciglio degradante verso il fiume che oggi è possibile visitare grazie. ad un risanamento conservativo dell'area, recentemente effettuato dal Comune di San Quirico d'Orcia (Parco dei mulini).
è noto che Caterina da Siena soggiornò più volte a Bagno Vignoni, portata dalla madre che intendeva distoglierla dal proposito di farsi monaca. Ma altri personaggi illustri attestano la fortuna delle terme, come papa Pio II Piccolomini e Lorenzo il Magnifico, che vi trascorse un periodo nel 1490. E estrema vicinanza alla via Francigena, percorso principale dei pellegrini che si recavano a Roma, favofi la conoscenza e l'uso di queste acque anche ai viaggiatori, almeno quelli meno frettolosi: ne esiste una testimonianza nel diario di viaggio di Michel de Montaigne del 1581.
Le acque e le loro virtù curative ispirarono nel 500 a Lattanzio Tolomei, dotto senese, un7iscrizione votiva dedicata alle Ninfe, con versi in greco scolpiti su una lapide tuttora visibile su uno dei pilastri del loggiato di santa Caterina. Il Comune di Siena fu sempre molto attento a regolamentare lo svolgimento delle cure termali nel suo territorio, e proprio ai bagni di Vignoni sono dedicati due articoli del Costituto della città, dove si prescrive la separazione dai bagni degli uomini da quelli delle donne, da attuare a meta fra i residenti del borgo e gli abitanti dei castelli della Val d'Orcia; viene inoltre stabilito il prezzo da pagarsi per le camere.



Ben presto fiorirono nuovi interessi e studi sulle acque minerali e i bagni: fra gli autori che parlano di Bagno Vignoni spicca il medico Andrea Bacci, che vi soggiornò nel 1548 lodando la munifica ospitalità che ebbe da parte della famiglia Amerighi. Proprio a questa famiglia dal 1592 furono concesse dal Granduca le gabelle dei bagni, con obbligo di provvedere alla manutenzione necessaria: nel 1599 questo accordo divenne perpetuo insieme all'obbligo di mantenere al Bagno una panetteria, una macelleria, una osteria ed il personale necessario per le cure termali, mentre per la vuotatura annuale della vasca da effettuarsi in maggio, venne concesso agli Amerighi di avvalersi degli abitanti della Val d'Orcia. A questa famiglia si deve inoltre la costruzione della piccola cappella di santa Caterina, situata al centro del loggiato che si affaccia sulla grande vasca termale.
Nel 1677 il Granduca Cosimo III infeudo San Quiricod'Orcia al cardinale Flavio Chigi, insieme ai piccoli borghi di Vignoni e Bagno Vignoni: cose le terme unitamente a tre mulini, Otto case, un osteria e alcune terre passarono alla famiglia Chigi ai cui discendenti tuttora in parte appartengono. Oggi Bagno Vignoni è nota e apprezzata in tutto il mondo come pregiata località termale, situata in un comprensorio paesaggistico d'imponente bellezza, nel cuore del Parco Artistico Naturale e Culturale della Vai d'Orcia.

mercoledì 14 marzo 2012

Abbazia di Santa Croce in Sassovivo

Un amico mi ha segnalato questo bellissmo monumento che volentieri segnalo


abbazia Sassovivo,esterno
esterni del monastero umbro, foto © Karin Jehle-dreamstime

Alle pendici del Monte Serrone nelle vicinanze di Foligno è ubicata (poco più di 500 metri sul livello del mare) l'antica "abbazia di Santa Croce in Sassovivo" che, secondo quanto si tramanda, fu fondata nell'undicesimo secolo dal monaco Mainardo e già all'inizio ottenne molte donazioni anche da parti di nobili locali. Risulta comunque che nel febbraio 1098 l'abbazia acquistò dai conti locali Monaldo ed Oderisio diversi terreni ed anche un castello nella località di Casale del territorio di Cancelli (ora frazione montana di Foligno, che nel medioevo fu famosa per la presenza di alcuni "guaritori"). Similmente risulta per un'altra frazione montana come quella di Scopoli ecc.

abbazia Sassovivo, complesso
il complesso di Sassovivo (Pg) con il chiostro, foto © Karin Jehle-dreamstime

Un secolo dopo la fondazione, e forse a cominciare dal secondo abbate Alberto, dipendevano dal monastero numerose chiese ed, a quanto pare, anche parecchi piccoli conventi. Comunque l'abbazia aveva il suo ruolo in diverse località circostanti spesso prossime alla dorsale dell'Appennino umbro-marchigiano.
Per varie circostanze successive inclusa una generale disposizione papale del 1467, il grande patrimonio del monastero fu poi notevolmente ridotto. L'abbazia subì infine grossi sacrifici con l'occupazione napoleonica e dopo anche con l'unità italiana.
Di notevole interesse artistico, come anche evidente dalle foto, è il chiostro. E si tratta di un'opera del maestro Pietro de Maria nell'anno 1299. I marmi dell'incantevole chiostro furono scolpiti nel convento romano dei Santi Quattro Coronati al Celio. In totale possono contarsi 128 colonnine talora a spirale. Nel XIV secolo nel lato ad est furono poi aggiunti degli archetti in terracotta.
I canoni artistici sono quelli dei marmorari romani dell'epoca (botteghe del Vassalletto, di Jacopo di Lorenzo ecc.). La cisterna al centro del chiostro è invece successiva (1340 circa, successivamente rimaneggiata).


( chiostro abbazia Sassovivo, foto di Alpy, 2005, dir. ris.); foto in contesto innevato


( diversa visione del chiostro, foto di Alpy, 2005, dir. ris.); foto in contesto innevato


Dal 1979 il Convento è affidato ai fratelli della Comunità Jesus Caritas, organizzazione religiosa che si ispira al missionario Charles De Foucauld. L'archivio dell'antico monastero, ora conservato dalla Diocesi di Spoleto e Norcia, documenta parte importante della storia della zona. E' da segnalare che all'interno dell'abbazia, oltre a resti di affreschi, sono visibili alcuni ambienti ( l'antica cripta del beato Alano ecc.). Infine il contesto naturale è notevole.

L'abbazia di Sant'Antimo



Una tradizione, abbastanza attendibile, vuole che Carlo Magno nel 781, di ritorno da Roma lungo la via Francigena, transitasse per il monte Amiata con la sua corte ed il suo esercito. In molti vennero colpiti dalla peste e, per fermare il flagello, l'imperatore fece un voto e fondò l'Abbazia. Sant'Antimo è quindi un Ex voto imperiale. Secondo altri storici la fondazione risale ai Longobardi come quella di San Salvatore sull'Amiata. Non si esclude neppure che nel luogo esistesse una villa romana e si sa con certezza che nel IV-V secolo Castelnuovo dell'Abate era un importante centro abitato, dotato di una pieve, poi scomparsa.
Il monastero di Sant'Antimo comunque esisteva nell'anno 814 come testimonia un diploma di Ludovico il Pio che arricchisce l'abbazia di doni e privilegi. Dal X secolo l'abate del monastero è anche Conte Palatino, carica pubblica di grande rilievo conferita dall'imperatore. Nel IX secolo l'abbazia attraversa difficoltà finanziarie, al punto che nell'877 Carlo il Calvo l'affida al vescovo di Arezzo, con l'obbligo di mantenervi a proprie spese 40 monaci.

 Nel 992 papa Giovanni XV (985-996) emana una bolla con la quale il monastero passa sotto la diretta giusrisdizione della Sede Apostolica. Il 1118 sega l'inizio dell'apogeo di Sant'Antimo. Il conte Bernardo degli Ardengheschi cede il suo intero patrimonio in beni moili e immobili "in toto regno Italico et in tota marca Tuscie" a Ildebrando, figlio di Rustico, affinché lo trasferisca all'Abbazia. La testimonianza di questa eccezionale donazione venne incisa sui gradini dell'altare come "carta lapidaria" a perenne ricordo dell'evento. L'abate Guidone (1108-1128) che ricevette la donazione diede subito avvio al grande cantiere per la costruzione della nuova chiesa.
Il periodo di massimo splendore dura fino alla perdita di Montalcino, occupata dai senesi che obbligano l'abbazia alla firma di un patto con cui viene ceduta a Siena anche la quarta parte del territorio di Montalcino.


Il 12 giugno 1212 l'abbazia inizia il suo lento declino. Affidata ai Guglelmiti da papa Nicolò IV (1288-1292) con bolla del 23 agosto 1291, vive una breve ripresa nel periodo tra il 1397 e il 1404, fino alla sua soppressione nel 1462 da parte di papa Pio II (1458-1464) che ne affida i beni al vescovo della neonata diocesi di Montalcino e Pienza, creata il 13 agosto dello stesso anno. Dopo il passaggio dell'abbazia alle proprietà dello Stato nel 1867, si aprì un lungo periodo di restauri che salvarono l'intero edificio.
I lavori, iniziati nel 1872 e terminati nel 1895, portarono la chiesa all'aspetto attuale. Nel 1992 l'attività religiosa è ripresa grazie all'arrivo dei Canonici Regolari Premonstratensi. Nessuna immagine, nessun fimato, nessuna visita virtuale può ancora sostiutire e riprodurre il medesimo fascino di questo luogo. L'incanto è totale e l'armonia con cui le geometrie architettoniiche dell'abbazia si integrano con il paesaggio supera ogni paragone. La facciata, rimasta incompiiuta, presenta un portale, probabile soluzione di ripiego ad un prgetto che ne prevedeva due, sormontato da un'architrave databile alla prima metà del XII secolo e capitelli, fregi e ghiere di poco posteriori. L'elemento che più di ogni altro conferisce a questa chiesa un'impronta francese è lo schema basilicale con deambulatorio a cappelle radiali, unico in Toscana e tra i pochissimi presenti in Italia. Al mattino, il sole gioca con la pietra che nel deambulatorio è la più preziosa tra tutte quelle utilizzate per la chiesa: alabastro e travertino, con cui sono realizzati capitelli e colonne. Lunga 44 metri, la chiesa è sorvegliata all'ingresso da due leoni stilofori, destinati probailmente al portale esterno, databili al XII secolo e attribuiti al Maestro di Cabestany come lo stupendo capitello con le scene di "Daniele nella fossa dei leoni".
I raffinati motivi fitomorfici e geoetrici, precisi nel disegno e netti nell'intaglio, denunciano una matrice che va ricercata in Francia, in Alvernia.

Però altri capitelli ubicati nel deambulatorio presentano un carattere lombardo il che rende plausibile l'ipotesi cha a Sant'Antimo abbiano lavorato due maestranze, una francese e una, forse pavese, oppure che si sia trattato di un'unica maestranza lombarda che aveva soggiornato in Alvernia.
Sulla destra della chiesa maggiore, posta all'inizio del deambulatorio, si trova la cappella carolingia del secolo VIII-IX, un piccolo edificio ad unica navata rettangolare, con abside semicircolare. Sul lato esterno sinistro si eleva l'imponente campanile alto circa 30 metri. Diviso in quattro ordini, decorato da lesene, con aperture monofore e bifore, è di stile lombardo con una nota pisana per le colonne agli angoli della base. Il campanile ha una copertura a terrazza, su cui sono collocate due campane, una delle quali porta incisi il nome dell'abate Ugo (1216-12222) e la data 1219. L'abside della grande chiesa, sintesi di potenza e di slancio, culmina con una deliziosa bifora, l'unica che la illumina interamente.
Presto alla riforma monastica di Vallombrosa si unirono altri monasteri in Toscana e fuori, sotto la guida carismatica del Gualberto formando la Congregazione Vallombrosana riconosciuta ufficialmente dal Papa Urbano II nel 1090. Le origini della congregazione vallombrosana sono caratterizzate da una potente volontà di riforma, sia nei confronti della chiesa che del monachesimo e dal desiderio di vivere alla lettera la regola di San Benedetto.
La congregazione conobbe un lungo periodo di espansione che si mantenne fino al XVI secolo; poi iniziò il declino e nel 1866 il governo italiano decretò la soppressione generale degli ordini religiosi. Intanto, la comunità monastica si era trasferita a Pescia, dove rimase fino al 1949.
Fu soltanto nel 1961 che poté rientrare nell'abbazia di Sant'Antimo, la cui proprietà è tuttavia rimasta allo Stato.

Info dettagliate nel sito ufficiale: http://www.antimo.it/

Dai fiamminghi ai fiorentini, 'Epifanie di tessuti preziosi' al Museo degli Uffizi

Diciassette arazzi e diverse opere di tessuti e stoffe di manifattura del Cinquecento e del Seicento. Una mostra singolare il cui obiettivo è far conoscere ai visitatori un settore prezioso delle sue collezioni.


'Cristo davanti a Erode', tessitura di Guasparri Papini, manifattura medicea

 
Veri e propri capolavori dalle misure monumentali, di inestimabile valore, a metà tra l'artigianato e la rappresentazione artistica. Gli arazzi rappresentano da sempre una forma d'arte tessile dalla tecnica estremamente laboriosa, destinata a rivestire le pareti di dimore e antichi castelli. Le scene descritte nella lavorazione erano molto dettagliate e il risultato finale dipendeva dall'abilità dell'artigiano incaricato dell'esecuzione.
Una delle collezioni più importanti si trova oggi presso la Galleria degli Uffizi a Firenze che, grazie all’esposizione dal titolo 'Epifanie di tessuti preziosi' offrirà al pubblico la possibilità di ammirare diciassette arazzi tratti da otto pregevoli serie delle collezioni del museo. Si tratta, in particolare, di opere di manifattura fiamminga del Cinquecento, tratte dalle serie delle 'Storie di Giacobbe', delle 'Feste alla Corte dei Valois' e delle 'Storie di Annibale', insieme a tessuti e stoffe di manifattura fiorentina del Cinquecento e del Seicento, da quelli devozionali del ciclo del Salviati, dalle serie delle 'Storie fiorentine', delle 'Cacce', della 'Passione di Cristo' e delle 'Storie di Fetonte'.

Un'esposizione ad hoc, dunque, il cui obiettivo è quello di far conoscere ai visitatori un settore prezioso delle sue collezioni, la cui fama va declinando per via di un'assenza, che dura da decenni, ormai, dai luoghi aperti al pubblico. Ma anche un modo per far comprendere quanto sia importante procedere a interventi di restauro sulla più parte di questa raccolta. Gli arazzi, infatti, sono opere d'arte che il tempo consuma impietoso, più d'altri manufatti. La luce, la polvere, la trazione conseguente all'apprendimento, infatti, sono le cause principali della degenerazione del loro stato conservativo. Al pari delle opere su carta, gli arazzi, e i tessuti in genere, non possono essere esibiti per periodi di tempo troppo lunghi perché gli agenti atmosferici porterebbero ad un progressivo sbiadimento dei colori dell'opera.


[Arazzo raffigurante 'Cristo davanti a Erode', 1601. Manifattura medicea, cartone di Ludovico Cardi detto il 'Cigoli', tessitura di Guasparri Papini. Depositi della Galleria degli Uffizi, Firenze]

Proprio per queste ragioni, infatti, gli arazzi della Galleria degli Uffizi nel 1987 furono rimossi dai suoi corridoi, dove rappresentavano un tratto di magnifica eleganza e furono collocati nelle stanze della riserva, attrezzati per la loro migliore conservazione, in attesa di uno spazio ad hoc nelle sale al piano terreno dell'edificio. Tuttavia non si perderà l'occasione perché nel frattempo siano godute dal maggior numero possibile di visitatori, e la mostra 'Epifanie di tessuti preziosi'.


[Arazzo 'Un torneo della serie delle Feste dei Valois', 1575ca. Manifattura di Bruxelles, disegno di Antonio Caron, 1564 ca., cartone di Lucas de Heere. Depositi della Galleria degli Uffizi, Firenze]

Alla presentazione di alcuni arazzi restaurati negli ultimi anni, come il 'Cristo davanti a Erode', su
cartone del 'Cigoli', qui presentato per la prima volta, se nei affiancano alcuni anche della medesima serie che mostrano la diversa situazione conservativa, favorendo nel confronto, d'intuirne i risultati di un recupero attraverso l'intervento di restauro.
A dispetto delle misure sovente monumentali e di una presenza apparentemente solida, gli arazzi sono manufatti delicati. Se si osserva con attenzione, ad esempio, i manufatti scelti per questa esposizione si noterà che la superficie non di rado reca segni di sofferenza.
La risoluzione d'offrire alla vista i panni bisognosi di cure accanto a quelli sortiti da un intervento di riassetto risponde anch'essa a una precisa volontà didattica, ovvero dar conto delle grandi possibilità di risarcimento fisico ed estetico consentite dalla scuola di restauro fiorentina, una delle migliori al mondo.

INFORMAZIONI
Titolo:
'Epifanie di tessuti preziosi'
Quando: 20 marzo-3 giugno 2012
Dove: Firenze, Galleria degli Uffizi
Orario: da martedì a domenica, ore 8,15-18,50. Chiuso tutti i lunedì
Ingresso: €11.00 Uffizi+mostra
Informazioni e prenotazioni : 055.290383

 

Vasari, un clic per conoscere segreti 'Martirio di S. Stefano' a Pisa


Pisa - (Adnkronos) - L'unico dipinto di Giorgio Vasari custodito a Pisa, il ''Martirio di Santo Stefano'', conservato nell'omonima chiesa in piazza dei Cavalieri, non ha piu' segreti: un'applicazione multimediale, realizzata dall'Associazione Mnemosine Cultura Digitale, con la supervisione scientifica del Laboratorio Percro dell'Istituto TeCIP (Tecnologie della Comunicazione, dell'Informazione, della Percezione) della Scuola Superiore Sant'Anna, permette adesso di conoscerne la sua genesi, il suo stato di conservazione, i dettagli sui restauri che hanno permesso di salvare l'opera. Per conoscere passato, presente e futuro di questa preziosa opera bastera' un clic. L'applicazione e' gia' accessibile al pubblico durante l'orario di apertura della chiesa, ogni mercoledi' e ogni sabato, dalle ore 10.00 alle ore 12.00. In occasione dei lavori di restauro del dipinto su tavola, di cui e' stato autore Giorgio Vasari tra il 1569 ed il 1571, su commissione di Cosimo I de' Medici, e' stata infatti ideata un'applicazione multimediale per raccontare la genesi, l'iconografia e lo stato di conservazione della celebre opera, resa ancora piu' preziosa dall'essere l'unica testimonianza pittorica che Pisa conserva dell'illustre artista aretino. 

martedì 13 marzo 2012

Prego, segnalateci la 'bellezza inutile'

Mi sono imbattuto, nelle mie ricerche, nell'articolo di Michele Brancale che trovo provocatorio e utile.
L'idea che sottende è la stessa che ho proposto anch'io nelle mie lezioni di storia medievale e devo dire, con un certo sollievo, che mi fa piacere non essere solo...

L'inutile fa respirare. L'inutile serve. C'è un'inutilità che non si compra, proprio perché è così essenziale a vivere, ad affinare il gusto di ciò che è bello davvero
 
San Miniato a Marciana
San Miniato a Marciana
 
Firenze, 13 marzo 2012 - Spiacenti. Dateci qualcosa di inutile, anzi ce lo prendiamo da soli.
L'inutile fa respirare. L'inutile serve. C'è un'inutilità che non si compra, proprio perché è così essenziale a vivere, ad affinare il gusto di ciò che è bello davvero. Ciò che è bello così è gratuito, anche se considerato “minore”. La chiesa in una piazza, in un tratto di campagna, laddove è collocata, restituisce un spazio di contemplazione, anche fuggevole nella fretta quotidiana, che però fa la differenza.

Levate da Firenze Santa Maria del Fiore e la città non è più la stessa.
Non sarebbe stata quella che è senza quella collina del bello intorno alla quale, al posto di un cimitero, si è sviluppato il battistero, simbolo di vita, e la città antica. “Il futuro dipende anche dai monumenti sconosciuti”, spiega Luca Nannipieri, direttore del Centro studi umanistici dell'Abbazia di San Savino, che porta un esempio: "Se andiamo a Pisa, qualunque persona ci indicherebbe piazza dei Miracoli e la famosissima Torre pendente come la bellezza per eccellenza della città, la sua bellezza maggiore e indiscutibile. Eppure prendiamo l'auto e rechiamoci a pochissimi chilometri di distanza: andiamo a Marciana e guardiamo la chiesa di San Miniato, già documentata nell'XI secolo e sconosciutissima oggi. E' una chiesa in pietra con il campanile a vela: è così essenziale nella forma che non sapresti che cosa aggiungere e che togliere”.

Spostiamoci un poco, saliamo al Corniolo, nel territorio di Firenzuola. Attorno alla piccola chiesetta rimasta, lentamente stanno rimettendo a posto le case del borgo.
“Le bellezze minori – attacca Nannipieri - sono quelle più esposte al degrado e all'incuria e paradossalmente sono quelle dove noi rintracciamo un senso ultimo di comunità, introvabile altrove. Attorno ai monumenti che non sono riconosciuti come bene comune e non attraggono considerevolmente l'interesse dei turisti e delle amministrazioni, molto spesso si crea una comunità di persone che, non volendosi rassegnare a che il loro monumento sia destinato alla cancellazione e all'oblio, si adopera e si impegna affinché quella bellezza, per loro così centrale, non venga perduta nel tempo”. Che statuto dare a persone e comunità che svolgono questo prezioso lavoro?
Gli Stati, soprattutto quelli più sviluppati, hanno oggi a un livello più o meno profondo, la sensibilità per quella manifestazione del bello che è l'arte: l'arte di quell'edificio, di quel quadro, di quella statua, di quella pieve, di quel paesaggio modellato dalla cura degli esseri umani. Nell'operare una scelta di protezione e promozione, gli Stati con i ministeri competenti e il relativo personale operano una selezione, anche necessaria, a fronte del patrimonio che c'è. Tuttavia questa scelta comporta un distacco dal vissuto, nel quali invece si colloca il “bello esperienzato”, il bello “meno ufficiale” che Nannipieri, in un suo saggio chiama, in modo evocativo, 'La bellezza inutile' (Jaka Book). Viene posto il problema delle persone, delle associazioni, dei gruppi che tengono in vita la “bellezza inutile”, quella meno o non tutelata e che invece dà il senso alla vita di una comunità, alla frequenza con cui qualcuno ritorna in quel luogo, davanti a quell'opera. E' proprio questo vivere l'opera che dà senso ad essa e che le consente di darne, ne rende incommensurabile il valore anche quando è un'opera minore, un ruscello rispetto al mare. C'è dunque da dare statuto a tutto questo, riconoscergli un'evidenza non residuale. Il ragionamento di Nannipieri punta al profondo, alla comprensione effettiva di quello che consideriamo 'patrimonio: “Patrimonio – dice - è una parola che deriva del latino ed è composta da pater, cioè padre, è munus, cioè compito. Alla lettera vuol dire semplicemente: il compito del padre, ovvero ciò che appartiene al padre, ciò che gli spetta. Ma se azzardiamo una più libera interpretazione, possiamo dire che patrimonio è ciò che i padri lasciano in consegna ai figli, cioè ciò che i padri debbono (munus, compito) lasciare in consegno ai figli”.
Non è una consegna puramente generica, ma che ha valore di compito, di dovere, di impegno. Tramandare una ricchezza “non significa genericamente o tecnicamente conservarla bene nel tempo per lasciarla ai nostri figli, ma dare significato agli occhi dei figli di quanto quella realtà sia una ricchezza, un bene centrale. Questo è il lascito, una trasmissione non di beni ma di attenzioni. Questo è il compito che sta dentro la parola 'patrimonio'. Ogni discorso sui beni culturali dovrebbe partire da qui”. In attesa di una normativa che aiuti e che dia riconosciuta dignità a questi processi, conoscete “bellezze inutili”? Segnalatele. (http://www.lanazione.it/firenze/cronaca/2012/03/13/680250-prego_segnalateci_bellezza_inutile.shtml)
                                                                                                                                              Michele Brancale

Ars gratia Artis...

Firenze, "Battaglia di Anghiari": trovato il nero di Leonardo

Firenze (TMNews) - Sembrava fosse solo una leggenda, ma ora per la "Battaglia di Anghiari" di Leonardo da Vinci spuntano le prove. Sotto il Vasari di Palazzo Vecchio, è infatti spuntato il "nero" di Leonardo da Vinci. Ne sono convinti i ricercatori che, sostenuti dal National Geographic, lavorano da alcune settimane nel salone dei Cinquecento per ritrovare resti della battaglia perduta. Il risultato più sorprendente, ha spiegato l'ingegner Maurizio Seracini, è dato dal pigmento nero che, a causa della sua composizione chimica, può essere ricondotto a Leonardo. Che poi si toglie anche un sassolino dalle scarpe nei riguardi dei detrattori della ricerca. Presente alla Cerimonia anche il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che ha sottolineato con soddisfazione l'accordo con il ministro dei Beni Culturali Lorenzo Ornaghi per completare le ricerche sull'opera leonardesca. Secondo il sindaco l'intervento sulle aree restaurate del dipinto di Vasari sarebbe possibile "fin da subito". E il mito della "Battaglia di Anghiari" diventa, se possibile, ancora più intrigante. Ma questa volta per davvero.

lunedì 12 marzo 2012

Omaggio a Giovan Battista Gaulli

Oggi vorrei rendere omaggio a questo grande pittore che ho avuto modo di ammirare durante i miei studi romani e al quale mi sono ispirato per la nuova veste del blog.


Bacìccia (o Bacìccio), Giovan Battista Gaulli detto il. - Pittore (Genova 1639 - Roma 1709). Dal 1660 circa lavorò a Roma; grandemente influenzato da G. L. Bernini, che lo protesse, quasi ne divenne l'interprete in pittura, con una genialità e un virtuosismo per la grande decorazione tali da farne una delle figure più rappresentative del barocco non solo romano. Dopo le quattro Allegorie (1668), dei peducci della cupola di S. Agnese in Agone, si ha notizia di un suo viaggio a Parma e a Modena, che certo ebbe importanza per la concezione del grandioso complesso della volta e dell'abside della chiesa del Gesù (1672-83),  che, con il più tardo Trionfo dei Francescani sul soffitto dei SS. Apostoli (1707), sono gli esempî massimi della sua abilità scenografica. All'estrema audacia delle decorazioni, e segnatamente di quella del Gesù, che sviluppano le strutture architettoniche in prospettive spalancate su cieli gremiti di santi e di angeli, corrisponde nei ritratti l'agile vivezza del segno e della pennellata. Nei quadri d'altare (Madonna col Bambino e s. Anna, S. Francesco a Ripa; Nascita del Battista, S. Maria in Campitelli, ecc.) sopravvivono, pur nella concezione aperta e nella fattura rapida, esperienze genovesi e bolognesi, con motivi del Bernini e Pietro da Cortona.


venerdì 9 marzo 2012

Alessandro Algardi

L'avvento al pontificato di Innocenzo X (1644) durante il quale il Bernini, almeno inizialmente, era caduto in disgrazia, segnò l'apogeo della fortuna di un altro notevole scultore, Alessandro Algardi.
Conosciuto soprattutto come rivale di Bernini, Alessandro Algardi non visse di luce riflessa, ma mostrò costantemente una sua autonoma e forte individualità che lo portò ad essere idolatrato dagli studiosi del suo tempo e ammirato dalla aristocrazia romana, che ritrovava nel suo stile il modo migliore per esprimere la propria dignità e nobiltà. In effetti il mondo artistico di quegli anni era diviso tra Barocco e Classicismo, cioé tra la passionalità e l’animazione berniniana e la compostezza ed il rigore a volte velato di malinconia dell’Algardi.
Nato nel 1595 a Bologna dove, indirizzato dapprima allo studio delle lettere, si iscrisse in seguito all'Accademia di Ludovico Carracci che fu da lui considerato maestro anche nella scultura più dell'oscuro Giulio Cesare Conventi dal quale apprese la pratica di quest'arte. Nel 1622 si recò a Mantova presso il duca Ferdinando Gonzaga nella collezione del quale potè conoscere la scultura classica che tanto ascendente esercitò sul suo indirizzo stilistico: esperienza del classico che proseguì quando, dopo un breve soggiorno a Venezia, nel 1625 si trasferì a Roma dove si dedicò al restauro delle statue antiche, che allora consisteva nell'aggiungere i pezzi mancanti alle mutile testimonianze della scultura ellenistico-romana. A Roma si legò d'amicizia col famoso pittore Domenichino, suo conterraneo, il quale, stando all'abate Bellori suo biografo, «non solo l'istruiva nelle cose dell'arte», ma lo propose per due statue in stucco della Maddalena e di San Giovanni Evangelista per le nicchie della cappella Bandini in San Silvestro al Quirinale (1628-29)


per la quale aveva già eseguito due statue il Mochi: e fu forse l'esempio di questi, oltre alla statuaria ellenistica, a tener lontana la plastica algardiana dal tumultuoso gusto chiaroscurale di quella del Bernini per avviarla a quella pacata e diffusa luminosità che avvolge le superfici delle sue sculture.
Mal però ne fu ripagato il Mochi quando nel 1645 l'Algardi riuscì, mediante intrighi, a togliergli la commissione del senato romano per una statua di bronzo di Innocenzo X da porre nel palazzo dei Conservatori, la quale è uno dei suoi capolavori per la vivacità del gesto benedicente e per la saldezza della costruzione animata dall'intenso gioco chiaroscurale degli ampi paramenti.


Precedentemente, nel 1634, era stata commessa all'Algardi la tomba di Leone XI, papa per ventisette giorni, inaugurato in San Pietro nel 1652: opera alquanto freddina, eseguita con la collaborazione di aiuti cui appartengono le statue della Prudenza e della Liberalità e che si fa apprezzare soprattutto per l'elegante bassorilievo del sarcofago.


La fortuna dell'Algardi raggiunse il suo apice nel 1650 quando, in occasione dell'Anno Santo, venne esposto in San Pietro il modello in gesso a grandezza naturale della colossale pala marmorea con la Fuga di Attila che, commessagli nel 1645, fu da lui terminata nel 1653. Enfatica e fredda al tempo stesso, essa sembra la traduzione plastica di una tela carraccesca anche per la macchinosa suddivisione in due parti, quella bassa con le due figure affrontate di Leone Magno e del piroettante Attila e quella superiore con San Pietro e San Paolo che si precipitano "in picchiata"; e non del tutto risolto appare il rapporto tra l'aggettare dei primi piani e il carattere quasi grafico delle immagini retrostanti: onde, per apprezzare le qualità dell'Algardi, conviene considerare a parte la bellissima e quasi ansiosa figura del personaggio accoccolato dietro al papa che con plastica potenza e ricchezza di piani erompe fuori della cornice del quadro.


Diversamente da quelle del Bernini, che si direbbero concepite di getto, le opere dell'Algardi appaiono il frutto di una laboriosa e meditata gestazione, testimoniata anche dalla lunghezza dei tempi in cui furono eseguite: fu questo anche il caso del gruppo della Decollazione di San Paolo iniziata nel 1634 su commissione della famiglia Spada per l'omonima chiesa di Bologna e non ancora terminata nel 1641 e dalla modellazione analiticamente ricercata.


Attivo anche come architetto e abilissimo stuccatore-decoratore, l'Algardi fu un eccellente ritrattista e il suo capolavoro in tal genere è il busto di donna Olimpia Maidalchini (Roma, Galleria Borghese), la potente cognata di Innocenzo X, per l'ardito motivo del grande velo che si inarca a fare ala a quel volto di virtuosa e matura matrona romana improntato da un autoritario cipiglio.


L'Algardi morì a Roma il 10 giugno 1654.

Fonte: http://www.scultura-italiana.com/

giovedì 8 marzo 2012

Auguri alle donne!



Maria ha ispirato tutti gli artisti, in tutti i Paesi, in tutti i tempi: icone, statue, sculture, affreschi, mosaici, vetrate, cattedrali, poesie, letteratura, canti, opere, sinfonie, campane, film, francobolli, santini, stendardi, presepi, immagini per la comunione, gioielli, medaglie...È, senza alcun dubbio, la creatura più cantata e più magnificata in tutte le culture e in tutte le lingue!
L'immagine che propongo per questo omaggio alle donne è quella dipinta dal Ferruzzi.