Una nuova biografia di Carlomagno.
Si dirà che ce n'erano abbastanza, in
tutte le lingue europee: da quelle classiche fino a quella, recente e di grande
successo, di Alessandro Barbero.
Ma il grosso lavoro di Georges Minois merita
comunque attenzione, per molti motivi:
1) esce a soli due anni dall'edizione
originale francese, il che in Italia è quasi un record dal momento che, anche
dalla "sorella latina", le traduzioni ci arrivano – quando arrivano – piuttosto
stagionate;
2) fa parte di una collana prestigiosa ch'è uno dei fiori
all'occhiello dell'editrice Salerno, la «Biblioteca storica» fondata da Luigi
Firpo e diretta da Giuseppe Galasso;
3) reca la firma di Georges Minois, uno
studioso molto attento ai temi di ampio respiro adatti a un pubblico colto ed
esigente ma non rivolti ai soli specialisti;
4) e collegato al 3), non
intimidisce il lettore con un imponente apparato erudito, anzi è un libro
corposo sì ma agile, senza note, per quanto provvisto di una buona e aggiornata
bibliografia.
Siamo dinanzi a un'opera abilmente e sapientemente strutturata.
Siamo dinanzi a un'opera abilmente e sapientemente strutturata.
Dopo una breve e rassicurante "Introduzione", nella quale l'autore promette – e
si vedrà che mantiene – di non lasciarsi fuorviare nella sua esposizione da
«interpretazioni ideologicamente orientate», nove corposi "Capitoli" (dal III
all'XI) narrano in rigorosa sequenza cronologica le vicende politiche, sociali e
diplomatiche di Carlo e del suo regno.
Seguono cinque "Capitoli" tematici nei quali si riprendono e si sintetizzano altrettante questioni critiche, lasciate un po' in ombra nella trattazione generale: l'eterogeneità geoetnoculturale dell'Impero e la debolezza degli scambi, il suo carattere rurale e la sua fragilità produttiva, la vita di corte e quella privata, le caratteristiche del Governo e dell'amministrazione, le istituzioni militari e culturali, le realizzazioni artistiche.
Ma quel che più caratterizza forse un profilo biografico che, data la sua natura e il suo oggetto, non può riservare grandi sorprese al lettore competente in cose medievistiche – al di là dei molti particolari relativi agli avvenimenti, che in effetti ci si aspetta di veder privilegiati in opere di questo tipo –, sono i due "Capitoli" iniziali.
Seguono cinque "Capitoli" tematici nei quali si riprendono e si sintetizzano altrettante questioni critiche, lasciate un po' in ombra nella trattazione generale: l'eterogeneità geoetnoculturale dell'Impero e la debolezza degli scambi, il suo carattere rurale e la sua fragilità produttiva, la vita di corte e quella privata, le caratteristiche del Governo e dell'amministrazione, le istituzioni militari e culturali, le realizzazioni artistiche.
Ma quel che più caratterizza forse un profilo biografico che, data la sua natura e il suo oggetto, non può riservare grandi sorprese al lettore competente in cose medievistiche – al di là dei molti particolari relativi agli avvenimenti, che in effetti ci si aspetta di veder privilegiati in opere di questo tipo –, sono i due "Capitoli" iniziali.
Qui sta
l'abilità dell'esperto autore di opere storiche di largo respiro e indirizzate a
un pubblico d'una certa preparazione. Minois si guarda bene dal procurare ai
suoi lettori la solita "doccia scozzese" consistente nel fiondarli fin dalle
prime pagine in un passato remoto per essi largamente sconosciuto.
Anziché
partire da quello che, nella soggettività di chi scrive e di chi legge, può
sembrare (e non è mai) il "presente" delle cose narrate, e che in realtà è un
passato magari remoto e oscuro, Minois parte con i piedi ben piazzati per terra:
la terra sua e nostra, quella del presente attuale. Prima di arrivar a parlare
cioè di un personaggio, un guerriero, uno statista dell'VIII-IX secolo,
ripercorriamo il profilo del "nostro" Carlo: chi è, lui, per noi?
Da quando ha
inizio la sua tanto forte presenza nella nostra storia, e perché? Ed è davvero
presenza "storica", oppure si tratta di un "mito"?
Per rispondere è necessario partire dalla fondazione dell'Impero romano-germanico, istituzione del pieno Medioevo ma per molti motivi già preludente alla Modernità: la nostalgia dell'Impero romano, la volontà di rifondarlo e di avvertirlo come cosa ancor in qualche modo attuale, la coscienza dell'irrevocabilità di un passato ormai storicamente chiuso e la consapevolezza che quel passato è stato comunque qualcosa di talmente straordinario e fondamentale da poter venir mai del tutto considerato come concluso.
Per rispondere è necessario partire dalla fondazione dell'Impero romano-germanico, istituzione del pieno Medioevo ma per molti motivi già preludente alla Modernità: la nostalgia dell'Impero romano, la volontà di rifondarlo e di avvertirlo come cosa ancor in qualche modo attuale, la coscienza dell'irrevocabilità di un passato ormai storicamente chiuso e la consapevolezza che quel passato è stato comunque qualcosa di talmente straordinario e fondamentale da poter venir mai del tutto considerato come concluso.
Ciò è quanto Minois ci propone nel "Capitolo I".
È
già nell'anno Mille, l'anno in cui un giovane principe, Ottone III, figlio di un
sassone e di una greca bizantina, s'insedia di nuovo in Roma e si proclama
successore diretto degli antichi Cesari, che il mito di Carlomagno come anello
che congiunge l'antica alla nuova coscienza imperiale s'impone, invadendo di
nuova luce la stessa ambigua incoronazione romana di duecento anni prima.
Seguono le diverse interpretazioni di quel mito: il crociato, il cavaliere, il
rifondatore della cultura.
Il Barbarossa, Carlo V, Napoleone, Hitler, la nuova Europa democratica desiderosa di riconoscersi in una pur problematica unità, tutti insomma si sono misurati con Carlo e ne hanno fornito una loro interpretazione.
Il Barbarossa, Carlo V, Napoleone, Hitler, la nuova Europa democratica desiderosa di riconoscersi in una pur problematica unità, tutti insomma si sono misurati con Carlo e ne hanno fornito una loro interpretazione.
C'illudiamo, se pensiamo che il nostro interesse per quel
vecchio sovrano franco discenda tutto e soltanto dalla sua pur eccezionale
figura: esso dipende anche, e parecchio, dal suo mito e dalla capacità di
rinnovarsi che esso ha dimostrato nei secoli.
Il "Capitolo II" c'introduce al passaggio dal mito alla realtà storica. Per accedere alla quale il lettore ha bisogno di quel che non sempre gli autori gli forniscono: la consapevolezza delle fonti che servono ad accedere a quei fatti che troppo spesso, nei lavori non specificamente scientifici, vengono proposti come una realtà ben solida e immodificabile mentre sono, al contrario, il frutto di una ricostruzione, molti aspetti della quale sono esegetici o addirittura ipotetici.
Il "Capitolo II" c'introduce al passaggio dal mito alla realtà storica. Per accedere alla quale il lettore ha bisogno di quel che non sempre gli autori gli forniscono: la consapevolezza delle fonti che servono ad accedere a quei fatti che troppo spesso, nei lavori non specificamente scientifici, vengono proposti come una realtà ben solida e immodificabile mentre sono, al contrario, il frutto di una ricostruzione, molti aspetti della quale sono esegetici o addirittura ipotetici.
Molti recensori
consigliano al "lettore comune" (ma ne esiste un altro?) a saltare "Capitoli" di
questo genere, presentati come "ostici" e "noiosi".
Non fatelo. Rischiereste di
non capire il resto.
La "Conclusione", che peraltro dà conto del sottotitolo che potrebbe sembrare retorico o esornativo, resta comunque "aperta", forse al di là delle intenzioni se non delle convinzioni dell'autore. I due poli del l'esperienza di Carlo e della tradizione che da essa è derivata, la "romanità" e la "germanicità", restano in fondo abbastanza astratti: e i riferimenti alla Merkel e a Sarkozy hanno l'aria di voler rispondere piuttosto a un'esigenza di attualizzazione della storia che per certi versi può sembrar intrinseca alla riflessione storica stessa, ma della quale in ultima analisi si può fare anche a meno.
La "Conclusione", che peraltro dà conto del sottotitolo che potrebbe sembrare retorico o esornativo, resta comunque "aperta", forse al di là delle intenzioni se non delle convinzioni dell'autore. I due poli del l'esperienza di Carlo e della tradizione che da essa è derivata, la "romanità" e la "germanicità", restano in fondo abbastanza astratti: e i riferimenti alla Merkel e a Sarkozy hanno l'aria di voler rispondere piuttosto a un'esigenza di attualizzazione della storia che per certi versi può sembrar intrinseca alla riflessione storica stessa, ma della quale in ultima analisi si può fare anche a meno.
Certo, l'Impero carolingio fu non mediterraneo come quello romano, bensì
continentale; al pari di quello romano si trovò a dover risolvere il problema
del rapporto tra unità istituzionale e pluralità etnoculturale; si fondò
solidamente sul cristianesimo, non meno di quanto l'Impero romano d'Occidente
aveva fatto nell'ultimo secolo della sua esistenza, ma al tempo stesso non poté
fare i conti con la componente slava di quella che sarebbe stata l'Europa futura
e non riuscì a consolidare la sua unità per troppi decenni dopo la morte del suo
fondatore: al punto tale che ci si è chiesti se l'Europa moderna sia davvero
"figlia" dell'Impero carolingio o non piuttosto della sua decomposizione.
Tutte
queste cose, ce le avevano già ben spiegate Pirenne, Ganshof e molti altri.
Eppure Carlo resta, nell'immaginario degli europei colti, un "Padre della
Patria".
Questo vorrà ben dire qualcosa: almeno al livello mitico.
D'altro
canto, anche i miti stanno nella storia, ne sono parte.